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giovedì 26 maggio 2011

Siamo Tutti Operai, di Adriana Pollice




Le serrande dei negozi abbassate o ferme a metà ieri a viale Europa sono il primo segnale che a Castellammare non c’è ritorno alla normalità senza un nuovo piano per il cantiere stabiese. Gli operai si dividono tra il presidio che tiene sotto pressione il Municipio, il blocco stradale lungo l’arteria principale, su cui insistono ospedale e tribunale, fino all’occupazione dei binari della Circumvesuviana, la metropolitana regionale che collega Napoli a Sorrento. La strada ferrata, all’altezza della fermata di via Nocera, scorre sul piano del calpestio di pedoni e auto senza soluzione di continuità, tra case e negozi. Lì il gruppo più numeroso di operai forma un grumo umano. Col megafono arringano la folla di passanti del mattino, ma è quasi superfluo, tanto a Castellammare tutti sanno quello che sta succedendo. Chiudere il cantiere significa azzerare la loro identità, interrompere la catena di orgoglio e conoscenza che si passano da una generazione a un’altra. «Siamo stati tutti operai – racconta una signora che passa con le buste della spesa – quando c’è il varo la vita si ferma, io mi affaccio dalla finestra, solo quando la nave è in mare dico assa fa’, è andato tutto bene e torno a fare quello che devo fare. Protestate, protestate!». Il sindaco Luigi Bobbio, passati i cinque minuti di solidarietà avuti martedì, ieri invocava l’esercito per schiacciare la sovversione, «recuperare il controllo della piazza e a ripristinare la legalità». Una legalità senza lavoro, l’ordine la sua sola ossessione.
Tra gli argomenti del giorno, i commenti all’incontro della sera prima con il presidente della regione, Stefano Caldoro. «La politica industriale non la faccio io, quattro ore per tirargli fuori l’impegno scritto a finanziare la ristrutturazione del bacino, soldi già stanziati e bloccati perché poi dipende da un diverso piano industriale di Fincantieri… siamo arrivati a questo sfascio anche perché nei palazzi che contano non ci difende nessuno», racconta Francesco D’Auria, operaio Fiom, mentre organizza nuove iniziative. «Siamo a un bivio, l’equilibrio sociale che si basava sul lavoro è appeso a un filo – riprende Rolando, elettricista per una ditta dell’indotto – a Castellammare negli ultimi due anni la disoccupazione è cresciuta del 37%, il piano per il Sud del ministro Tremonti è un piatto vuoto». Cantiere e stabilimenti termali, la storia della città tutta giocata sulle sue acque: il primo virtualmente chiuso, le seconde non pagano lo stipendio ai dipendenti da cinque mesi, dietro la porta la svendita ai privati. Così in città, come già accaduto a Pomigliano d’Arco con la crisi Fiat, stanno aumentando le famiglie vittime d’usura.
Da anni attendono interventi per lo sviluppo. Per il comprensorio d’area torrese-stabiese furono stanziati 180 miliardi di vecchie lire, risultato: un porto turistico a Marina di Stabia e un hotel, il Crowne Plaza, 180 miliardi per creare appena 120 posti di lavoro, stagionali e sottoposti all’andamento di un turismo che da queste parti proprio non si vede visto che, poco più in là, c’è la costiera sorrentina. La paga media per un operaio dei cantieri è di 15 mila euro all’anno se non si resta a casa senza consegne, al nord il reddito medio è almeno il doppio: «Ma se mi devo prendere una vacanza – ragiona Giovanni – porto la famiglia a Sorrento a mangiare, panino e bibita 4 euro e non di più che, altrimenti, non ci possiamo permetterci la benzina per tornare. Ma chi ci va a ‘sto Crowne Plaza».
Massimo ha 36 anni e tre figli, lavora anche lui nell’indotto. È in cassa integrazione, circa 900 euro al mese, 400 se ne vanno solo per l’affitto. Fa il carpentiere, si occupa delle strutture in legno su cui scorre la nave durante il varo. Il varo è la cerimonia fondante dell’identità di Castellammare, come il miracolo di San Gennaro per Napoli. L’evento eccezionale che ti dice chi sei e cosa rappresenti. Sul telefonino ha il video dell’ultima volta, novembre 2009: «Ci vedi tutti in fila con il casco, lavoriamo per ditte diverse ma siamo come un unico corpo. La nave scivola in acqua quando si recita la formula Madrina, in nome di dio, taglia». Noi gettiamo i guanti sulla fiancata come per accompagnarla, tutto intorno suonano le sirene, i fuochi dal ponte, si dice che la figlia piglia il mare, va dalla mamma. Arrivata in acqua, le cime la tengono e io grido fermati picceré». Massimo racconta e tutti intorno hanno letteralmente la pelle d’oca. Sono figli e nipoti d’arte: «Io e mia sorella – riprende – aspettavamo mio padre di ritorno dal lavoro perché il pomeriggio ci dovevamo fare pane e salame con il cestino del cantiere».
Sono i più giovani d’Italia, sopravvissuti all’ultima ristrutturazione del ’94. Si sono ritrovati senza colleghi anziani a costruire navi, una sfida che hanno vinto, del resto sono passati indenni da una prova a un’altra. «Il bacino di costruzione non l’abbiamo mai potuto avere. Prima ci dicevano che c’era già a Napoli, poi lo hanno venduto ai privati ma, intanto, avevano investito ad Ancona, per noi non è mai arrivato il tempo, avremmo tolto lavoro al nord». I più giovani e i più bravi, in grado di conquistarsi i premi produzione. Fino al 2007 ognuno degli otto cantieri aveva una nave da costruire, nel 2008 le commesse sono scese a cinque, nel 2010 a tre. La crisi e la struttura obsoleta sono diventate armi di ricatto per spremere i lavoratori stabiesi: «Abbiamo costruito navi prototipo per Tirrenia e Grimaldi. Due per un committente finlandese, nello stesso tempo ad Ancona ne hanno consegnata solo una, pur avendo infrastrutture migliori». Tutte realizzate su scalo e poi il varo: il mare sale e invade il bacino, è come una tempesta forza sette. «Lì si vede che siamo bravi – spiegano – se si spezza il lavoro non è stato fatto a mestiere, altrimenti resisterà a qualsiasi burrasca. Da noi mai nessuna rottura». Nel 2009 l’ad Fincantieri, Giuseppe Bono, ha preteso la costruzione di un troncone per la Grimaldi in appena quattro mesi: «C’è la crisi, non possiamo acquistare i materiali, dovete adattare quello che avete già, ci ha detto. Allora abbiamo lavorato con quello che c’era senza far spendere un soldo per un progetto che prevedeva uno scafo particolare e pure fuori scala rispetto alla nostra struttura. Il troncone era talmente grande che, al momento del varo, la poppa era già in mare e il bulbo di prua sulla tribuna degli ospiti. Neanche questo ci ha fermato e adesso ci vengono a dire che dobbiamo chiudere». Sono giovani e sono bravi, sono pronti a qualsiasi riconversione per realizzare le navi del futuro, nessuna sfida li spaventa: «Bono è un incompetente – urlano – si levasse da mezzo lui che noi sappiamo stare nel mercato».

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