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lunedì 31 maggio 2010

Israele attacca e uccide i pacifisti. Strage in mare. Tratto da www.nuovaosicetà.it




Almeno quindici persone della flotta internazionale formata da sei imbarcazioni di attivisti pacifisti che si dirigeva verso Gaza sono rimasti uccisi in un assalto di un commando israeliano.
Secondo Hamas sono 20 le vittime, mentre alcuni militari israeliani - secondo la radio pubblica israeliana - sono stati feriti. Secondo i media israeliani, tra le vittime ci sarebbero nove cittadini turchi. La flottiglia organizzata da diverse Ong internazionali per portare aiuti umanitari nella striscia di Gaza, sfidando l'embargo imposto da Israele, era partita ieri pomeriggio da Cipro. A bordo delle sei navi con circa 700 attivisti, secondo gli organizzatori, ci sono 10.000 tonnellate di aiuti, tra cui 100 case prefabbricate e attrezzature mediche. Alcune navi della flottiglia battono bandiera turca e una Ong turca sarebbe uno dei principali organizzatori dell'intera operazione di invio di una flottiglia di aiuti a Gaza sotto assedio. Israele, che nega che a Gaza sia in atto una crisi umanitaria, aveva ripetutamente avvertito che avrebbe impedito alla flottiglia di arrivare a Gaza ma si era offerto di far pervenire a destinazione gli aiuti, dopo ispezione, tramite un valico terrestre. Per Israele, perciò, l'intera operazione è una «provocazione» studiata con l'intento di diffamare la sua immagine agli occhi del mondo. «Le immagini non sono certo piacevoli. Posso solo esprimere rammarico per tutte le vittime» ha detto il ministro israeliano per il Commercio e l'Industria, Binyamin Ben-Eliezer, alla radio dell'esercito. Un portavoce militare israeliano ha detto che viaggiatori hanno fatto uso di armi da fuoco e da taglio e opposto resistenza violenta ai soldati.
Il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas) ha condannato il «massacro» degli attivisti e decretato tre giorni di lutto nei territori palestinesi. In Israele intanto forze armate e polizia sono state poste in stato di massima allerta.

Dal canto suo, il movimento islamico Hamas esorta arabi e musulmani di tutto il mondo a "elevare la protesta" dinanzi alle ambasciate israeliane del globo, dopo il sanguinoso attacco israeliano alla flotta umanitaria in rotta verso Gaza.

Intanto, il Ministero degli Esteri greco ha attivato l'Unità di crisi in seguito all'assalto israeliano contro la 'Flottiglia per Gaza', della quale facevano parte due unità battenti bandiera ellenica, il cargo 'Liberta' del Mediterraneo' e la passeggeri 'Sfendoni', a bordo delle quali si trovavano cittadini greci e palestinesi.
Atene ha indicato di non avere finora notizie ufficiali su quanto accaduto e sulla sorte dei propri concittadini. Secondo attivisti greci a bordo delle unità, citati dalla radio Skai, gli israeliani avrebbero dato l'arrembaggio con elicotteri e gommoni ed avrebbero fatto uso di "proiettili veri".

Ci sono anche alcuni italiani, almeno tre, fra gli attivisti della flottiglia. E' quanto riferisce la Farnesina interpellata sulla vicenda.
L'ambasciata italiana in Israele ha comunque inviato alcuni funzionari ad Haifa, dove la flottiglia verrà scortata dalle forze israeliane, per verificare la situazione sul posto.

Dure proteste a Istanbul davanti al consolato israeliano. Un centinaio di persone si è riunito questa mattina di fronte alla sede diplomatica per dimostrare contro IsraeleIntanto la Turchia ha duramente condannato l'assalto armato ed ha sottolineato che «questo sfortunato evento, avvenuto in mare aperto in violazione della legge internazionale, può condurre a irreparabili conseguenze nelle nostre relazioni bilaterali» con Israele. La condanna è contenuta in un comunicato diffuso ad Ankara dal ministero degli Esteri turco, in cui si sottolinea inoltre che «i militari israeliani hanno usato la forza contro civili, tra cui donne, bambini e vecchi di vari Paesi che volevano portare aiuti umanitari alla popolazione di Gaza». «Israele - prosegue il comunicato - colpendo civili innocenti, ha ancora una volta dimostrato di ignorare del tutto la vita umana e le iniziative di pace e noi condanniamo con forza tale inumano trattamento da parte di Israele». «A parte le iniziative intraprese dall'ambasciata di Turchia a Tel Aviv, l'ambasciatore d'Israele ad Ankara è stato convocato al ministero per spiegazioni urgenti. Qualunque siano le ragioni di Israele - conclude il documento - è impossibile accettare tale azione contro civili che conducono attività pacifiche. Israele dovrà sopportare le conseguenze di questa violazione della legge internazionale».

Le autorità israeliane hanno chiesto ai propri cittadini presenti in Turchia di lasciare immediatamente il paese e di rientrare in patria. Lo ha annunciato la tv satellitare 'al-Arabiyà. Le autorità dello stato ebraico temono ritorsioni nei confronti dei propri cittadini presenti in Turchia.

domenica 30 maggio 2010

Intervista a Oliviero Diliberto. Tratto da "L'Ernesto".


di a cura di Francesco Maringiò

su l'Ernesto Online del 25/05/2010

l’Ernesto incontra Oliviero Diliberto, segretario nazionale del PdCI




Costretto ad un lungo periodo di riposo, a causa di un serio incidente al ginocchio, il compagno Oliviero Diliberto, segretario nazionale del PdCI, non sembra affatto sotto tono, quando ci accoglie nella sua casa. E lì, circondato dai suoi tanti e amati libri ed una graziosa gattina che ci gira attorno, inizia a parlare. Ed è un fiume in piena. «Accordo di governo, dopo le prossime elezioni nazionali? Sarebbe un errore, un guaio sia per noi che per il Pd, mentre ciascuno dovrà fare la sua, differente, parte. Questa è una crisi di sistema e per uscirne bisogna cambiare il sistema. Del resto i temi posti dai comunisti sono oggi, rispetto alla crisi strutturale del capitale e alle accelerazioni iperliberiste dell’Unione europea, più attuali che mai. Il punto è che occorrerebbe un partito comunista forte, radicato, di lotta e questo partito non c’è. Occorre risolvere il problema, contribuire alla costruzione di un partito comunista di questo tipo. E’ per questo che abbiamo lanciato, ormai da tempo (e solo parzialmente ascoltati) il progetto dell’unità dei comunisti. I comunisti e le comuniste bisogna unirli e unirle. Noi continueremo a lavorare per questo obiettivo e porteremo avanti questo progetto con tutti coloro che saranno disponibili ».

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D. Una prima domanda sulla cogente attualità. Credi che si stiano determinando le condizioni per elezioni anticipate?

R. È molto probabile. È difficile che il Governo possa reggere alla crisi ed ai continui scandali, oltre alla rottura stessa che si è andata consumando nel Pdl. E poi Berlusconi ha tutto l’interesse ad andarci. La scadenza del 2013 è in contrasto con i suoi interessi personali perché non potrebbe candidarsi a Presidente della Repubblica. Non è inverosimile pensare che le elezioni politiche possano tenersi insieme alle prossime elezioni amministrative.

D. E secondo te, allora, cosa dovrebbero fare le forze della sinistra e, in particolar modo, i comunisti? Ripetere l’esperienza del 2006 e l’accordo di governo col centro-sinistra?

R. Obbiettivamente oggi non vedo alcuna condizione per un patto di governo. Un accordo di questo tipo, oggi sarebbe un guaio sia per noi che per il Pd : troppo distanti i progetti e i programmi. Invece un largo fronte democratico che contrasti la peggiore destra di tutta Europa è auspicabile. E mi auguro che vi siano le condizioni per cambiare la legge elettorale che è folle, obbliga a formare schieramenti eterogenei e crea un Parlamento che non rispecchia il Paese, visto che di fatto non è eletto ma nominato. Noi comunisti dobbiamo lottare e muoverci politicamente per il ritorno alla legge proporzionale : è una richiesta che dobbiamo avanzare e per la quale dobbiamo mobilitarci. Altra questione è la risoluzione del conflitto d’interessi. Berlusconi, col suo dittatoriale monopolio dell’intero mondo televisivo ha trasformato un intero popolo di telespettatori in suoi elettori. Da questo punto di vista, dal punto di vista dell’organizzazione degenerata dell’organizzazione del consenso la situazione italiana è di una gravità inaudita: non solo è ora ma è già tardi per riportare la democrazia su questo terreno e togliere a Berlusconi questo strapotere.

D. Concentriamoci sull’ Unione europea e sulla crisi che la sta attraversando. E' questa, una crisi passeggera?

R. Se si analizzano le questioni si capisce come questa crisi non sia affatto ciclica e passeggera. Essa è dovuta alla finanziarizzazione del mercato (denaro che genera altro denaro) che ha colpito paesi diversissimi tra di loro, non necessariamente fragili dal punti di vista economico. E questo perché ci troviamo di fronte ad una vera e propria crisi capitalistica di sistema.

D. Questo vuol dire che ci troviamo di fronte a sconvolgimenti che cambieranno nel profondo l’Unione Europea e l’Eurozona?

R. Io temo che ci si stia avviando verso due euro-zone. La prima, forte, guidata dalla Germania. Ed una seconda, più debole, che è l’eurozona mediterranea (Portogallo, Spagna, Italia e Grecia) a cui verrà applicato un cambio diverso. Il che renderebbe tutto molto più complesso ed esporrebbe questi paesi al rischio di forti speculazioni finanziarie, che in parte stanno già avvenendo. Tutto questo si innesta su una crisi più complessiva che vede un attacco contro l’euro da parte degli Stati Uniti d’America e di alcuni speculatori europei.

D. Perché questo?

R. Fondamentalmente, perché l’euro è una moneta sui generis, priva di uno Stato nazione.

D. Si è parlato infatti di una moneta senza uno stato ed una politica economica.

R. Esattamente. E proprio questo essere una moneta senza Stato, fa dell’euro un paradigma emblematico del capitalismo, dove la politica viene cancellata e rimane solo il denaro.

D. Ma allora cosa pensi di questa Europa?

R. Questa Europa semplicemente non esiste. Voglio essere più esplicito: alcuni di noi hanno coltivato anni addietro l’idea che potesse nascere un’Europa politica, espressione dei popoli europei e con poteri decisionali, così che potesse formare un polo alternativo agli Usa. Ma tutto questo non è avvenuto e forse non poteva nemmeno avvenire. Lo dico con rammarico, ma bisogna prenderne atto, del resto gli Usa hanno lavorato sui singoli governi amici per impedire che si arrivasse ad un’unità politica. E la crisi sta ancora di più acuendo le difficoltà dell’Europa, rendendone impossibile la compiutezza di progetto politico, ma anzi disgregandola ancora di più, al punto che oggi, il Parlamento europeo è un vuoto simulacro, privo di poteri decisionali e di indirizzo.

D. Come si esce da questa crisi allora?

R. Come ho già detto prima, questa è una crisi di sistema. E allora non ci sono tante alternative: per uscire da una crisi di sistema bisogna cambiare il sistema. Il che, evidentemente, non vuol dire che io veda nell’immediato le condizioni per poterlo fare. I comunisti però hanno il compito di indicare una prospettiva di cambiamento radicale del sistema. Oggi più che mai la crisi rende attualissime le vecchie intuizioni contenute nel III libro del Capitale di Marx. Egli viveva in una economia con uno stadio embrionale di finanziarizzazione, ma aveva già allora lucidamente individuato i rischi enormi connaturati nel passaggio dalla fase in cui “merce produce denaro” a quella in cui “denaro produce denaro”. Ma tutto questo è intrinsecamente connaturato con il capitale. Oggi chi è comunista è più che mai attuale.

D. Ci sono, dunque, le condizioni per la ripresa della lotta e del conflitto? In Europa, in fondo, ci sono esempi che vanno in questa dimensione, basta vedere quello che accade in Grecia...

R. La ripresa delle lotte c’è. Ma proprio la Grecia ci dice che questo avviene se c’è un forte Partito Comunista, come il KKE, e un sindacato di classe. Non è l’unica condizione, ma è assolutamente indispensabile, altrimenti - come vediamo in Italia - le lotte sono parcellizzate ed incapaci di rappresentare gli interessi complessivi dei lavoratori.

D. E’ centrale il ruolo del KKE ...

R. Assolutamente. In Grecia c’è un Partito Comunista forte, organizzato, che rasenta il 10% del voti, con strutture, militanti, organi di stampa: è un partito di massa. E quindi è in grado anche di essere parte integrante di queste lotte. In Italia invece noi dobbiamo ricominciare da capo, ed è evidente che il nostro cimento è quello di costruire una soggettività di radicale opposizione al capitalismo che sia in grado di proporsi come una speranza, una guida per il futuro.

D. Ma il KKE non parla solo al popolo greco. Nel loro striscione all’Acropoli di Atene i comunisti hanno invitato i popoli di tutta Europa a ribellarsi.

R. I greci hanno un fortissimo senso dell’internazionalismo che è figlio della loro storia e della loro precisa identità politica. Per cui non mi sono stupito, anzi ho condiviso questo appello. Bisogna vedere quanti sono in grado di raccoglierlo. La parcellizzazione delle forze della sinistra di classe e degli stessi comunisti a livello europeo è incredibile. Uno dei temi oggi è quello di ricostruire un internazionalismo credibile, senza il quale sarà difficile anche organizzare le lotte.

D. Veniamo all’Italia. Il Governo ha, per lungo tempo, disseminato ottimismo e fatto credere che la crisi fosse già passata. Ora invece si avvia ad una manovra finanziaria di “lacrime e sangue”. Tutto questo non dovrebbe aiutare a creare un clima ostile al governo delle destre e più vicino alle ragioni delle forze di sinistra e dei comunisti?

R. La crisi si accentuerà e porterà ad un ulteriore indebolimento delle fasce più deboli della popolazione, con tagli di stipendi, salari, pensioni e, soprattutto, tagli allo stato sociale. Tutto questo però non necessariamente porta a sinistra. In altre fasi drammatiche della storia europea è accaduto un pericoloso spostamento a destra. Anche perché per governare politiche così drasticamente antipopolari ci vogliono governi autoritari, la militarizzazione delle società. E infatti io sono molto preoccupato.

D. Che fare, allora ?

R. Io vedo due questioni: una grande questione democratica in cui i comunisti e la sinistra, assieme alle altre forze democratiche, devono lavorare per mantenere l’agibilità democratica della piazza, affinché all’esplodere del conflitto si mantenga la possibilità della protesta e della lotta sociale. Questo è nell’interesse di tutte le forze che si riconoscono nei valori dell’arco costituzionale.

D. E l’altra questione?

R. È un aspetto più squisitamente nostro, perché attiene alla nostra capacità di essere parte dei conflitti e guidarli. Oggi le lotte non sono sparite, ma sono oramai parcellizzate. Assistiamo all’esplodere di micro conflitti diffusi (di una città o addirittura di una sola fabbrica). Il compito di noi comunisti, se ci riusciamo, è quello di tessere la rete di questi conflitti e metterli su un piano politico più generale, che li faccia uscire da questa atomizzazione e spettacolarizzazione, indotta dal fatto che la cancellazione dai mezzi di comunicazione porta ad esasperare gli aspetti simbolici ed eclatanti, proprio per riuscire a bucare lo schermo e dare voce alla propria lotta e protesta.

D. E qual è, secondo te, il contenuto centrale che queste lotte devono fare proprio?

R. Oggi, dopo la grande ubriacatura neoliberista degli anni ’90 ritorna con forza il ruolo dello stato in economia. E con questo non intendo gli aiuti a pioggia per risanare i bilanci delle banche. Se lo stato concede degli aiuti, deve entrare nelle proprietà ed entrare nei consigli di amministrazione. Non c’è altra strada. So che su questo il Pd è sordo, ma si deve provare ad aprire una stagione nuova.

D. Veniamo alla sinistra italiana: come vedi la situazione? E soprattutto, come sono messi i comunisti in Italia?

R. Nei momenti di difficoltà tendono a prevalere sempre le divisioni, le diffidenze reciproche, i distinguo, che sono spesso di lana caprina. Oggi più che mai sarebbe necessario superare questa empasse per provare a ricostruire. In fondo sino a non molti anni fa i comunisti avevano una forza organizzata ed un consenso anche elettorale piuttosto elevato. Nel 2006 Prc e Pdci presi assieme viaggiavano su percentuali a due cifre. Poi ci sono stati errori drammatici, come la partecipazione al governo Prodi.

R. Esperienza dalla quale i comunisti ne sono usciti con le ossa rotte …

D. Dobbiamo trarne la giusta lezione: il partito di lotta e di governo non funziona. Una forza politica, questo almeno è la mia visione, deve sempre delineare una prospettiva di governo. Ma un conto è essere un partito di governo, altra cosa è essere un partito al governo.

D. Puoi chiarire?

R. Un partito di governo è un partito che, seppur piccolo, è in grado di prospettare soluzioni e proposte per il governo del Paese, ma questo non implica una automatica propensione al governismo. Bisogna vedere se ci sono le condizioni, se si hanno i rapporti di forza, se si è in grado di spostare i rapporti politici. Se tutto queste condizioni mancano, allora bisogna essere un partito di lotta. Le due cose assieme non riuscì a farle nemmeno il PCI quando aveva il 34% dei voti, figuriamoci se possiamo esserlo noi.

D. E cosa devono fare i comunisti, allora?

R. Oggi vedo tre terreni di battaglia...

D. Iniziamo dal primo.

R. L’agibilità democratica. Ne ho brevemente accennato prima ma ci ritorno. In Italia la questione democratica è molto più accentuata che nel resto d’Europa. Berlusconi ha di fatto azzerato il Parlamento, visto che il 93% delle leggi sono di iniziativa governativa. Se a questo si aggiunge l’attacco alla magistratura (terzo potere dello stato) e all’informazione (che nei paesi a democrazia avanzata rappresenta una sorta di quarto potere), capiamo come la questione democratica in Italia è davvero stringente. Ma ci rendiamo conto del fatto che, negli ultimi mesi, si sono persi 400 mila posti di lavoro e la Tv passa l’Isola dei Famosi?

D. E poi?

R. All’interno di questo fronte democratico, che si caratterizza per battaglie di difesa della democrazia costituzionale, ci deve essere il tentativo di allargare il più possibile la sinistra in quanto tale. Il Pd è un interlocutore che sul terreno sociale ha delle politiche neoliberiste che sono molto distanti dalle nostre. E quindi bisogna allargare e rafforzare la sinistra di classe. Per me il discrimine è la contraddizione tra capitale e lavoro, perché è la contraddizione principale nel mondo. In questo secondo terreno possiamo incontrare le forze politiche che non sono comuniste e che tuttavia coerentemente si battono per miglioramento delle condizioni di vita delle classi popolari.

D. Vedo prefigurare, in queste tue parole, un ragionamento a cerchi concentrici: prima il terreno largo della democrazia, poi la sinistra e le questioni di classe. Qual è il terzo cerchio, e quindi il perno di tutto questo?

R. Indubbiamente i comunisti. Oggi non solo la questione comunista è centrale, ma io vedo, come complementare a quanto detto prima, un processo di ricomposizione dei comunisti. Ricostruire la sinistra non vuol dire che non ci devono più essere i comunisti, è il contrario. Nel momento in cui si lancia una battaglia unitaria, e possibilmente si cerca di dar vita ad un fronte largo e democratico, i comunisti per non estinguersi o per non rimanere una nicchia ininfluente, devono lavorare per rimettersi tutti assieme, superando le divisioni che purtroppo nei momenti di crisi tendono ad accentuarsi, invece che attenuarsi.

D. Perché?

R. Perché si diventa autoreferenziali quando si è in pochi. Oggi, viceversa, ci sono anche le condizioni oggettive per provare, dentro un percorso a cerchi concentrici di alleanze, a mettere assieme tutti quelli che sono ancora comunisti. Per guardare avanti, perché la crisi ci sta dando ragione. È un paradosso pazzesco: la crisi ci da ragione e tuttavia siamo ridotti ai minimi termini. Quando Prc e Pdci assieme fanno il 3% dei voti, è un dato imbarazzante. Possibile che questo dato colpisca solo me?

D. E Rifondazione Comunista ?

R. Io ho grande rispetto per il Prc, ma non posso non rilevare come alla nostra richiesta del 2008 di riunificare i due partiti, Rifondazione abbia risposto con una pulsione tutta interna a quel Partito. Secondo me è un errore. Non possiamo che prenderne atto. E dico di più: la linea del Pdci resta in piedi e noi lavoreremo con quelli che sono disponibili a farlo. Il che non significa mettere in discussione il rapporto con le altre forze della sinistra, anzi: dentro una sinistra più larga, i comunisti devono poter esercitare un ruolo.

D. Ti sento deciso. E’ questa la strada?

R. Ma certo! In fin dei conti le contraddizioni che stanno esplodendo a livello planetario sono talmente enormi che solo un cieco, o uno in malafede, non vede il ruolo che noi potremmo avere. Il capitalismo è forte e pervasivo. Certo, si manifesta in forme diverse dall’800, come è ovvio, ma se uno si va a rileggere i nostri classici, penso innanzitutto agli scritti di Lenin, trova delle chiavi di lettura utili per capire l’attualità. Sapendo che lo scontro planetario oggi, a differenza che nel passato, è prevalentemente sulle fonti di energia e sull’autosufficienza alimentare. Da questo punto di vista la Repubblica Popolare Cinese sta facendo una politica realmente lungimirante, con i suoi rapporti non di rapina con un continente importante come l’Africa. Noi vogliamo interagire dalla nostra periferia con questi enormi fenomeni, o vogliamo stare a guardare? Io credo che vada ricostruito un moderno internazionalismo, e questo passa solo dall’azione dei comunisti.

D. Puoi continuare il ragionamento?

R. Questo in fondo è uno dei terreni unificanti tra i comunisti. Lo scenario mondiale sta profondamente cambiando. Dal Sudafrica, all’America Latina all’Asia. Tutto quello che si muove, va nella direzione di una redistribuzione, cioè in una visione anticapitalistica. Noi, ahimè, viviamo chiusi in un bunker e vediamo il mondo attraverso la feritoia di questo bunker. Bisognerebbe avere il coraggio di uscire fuori, guardare a 360 gradi. Questo lo possono fare solo i comunisti, perché solo loro mantengono una teoria generale di critica sistemica al capitalismo.

D. Che fare, allora?

R. I comunisti vivono oggi una fase difficilissima. Sarebbe facile mollare. Facile ma profondamente sbagliato. Il pendolo della storia ha consegnato alla mia generazione il compito di mantenere viva un’idea per consegnarla alle nuove generazioni. Da questo punto di vista anche proseguire nella ricerca teorica, nella ri-aggregazione degli intellettuali, facendoli uscire dalle loro ricerche settoriali, per metterli in rete l’un l’altro e dare vita ad una ricerca e ad un confronto permanente e strutturato, è un compito del presente. Una volta c’erano centri di ricerca e di studio marxista di altissimo prestigio. Tutto questo va ricostruito da capo. È un lavoro di lunga lena, ma che dobbiamo ricominciare.

D. In che modo?

R. Abbiamo costruito l’Associazione “ Marx XXI ” per cominciare a lavorare in questa direzione. Dobbiamo tutti impegnarci perché lavori bene, perché questo seme, riposto oggi su un terreno arido, possa germogliare. Sono sempre più convinto che, nello stato in cui siamo, questo nuovo inizio è indispensabile e va fatto con i passi giusti, ad iniziare dal fatto che è prioritario stare in mezzo alle lotte, altrimenti non recupereremo mai la credibilità nelle nostre classi di riferimento.

D. Un’ultima domanda.

R. Immagino sulla Federazione della Sinistra...

D. Esattamente: che ne pensi?

R. Penso che la Federazione della Sinistra rappresenti l’occasione per favorire l'unità d'azione dei comunisti insieme ad altre forze della sinistra. Poi bisogna dire che all’interno di uno dei due partiti comunisti ci sono militanti e dirigenti che non si ritengono più comunisti. Lo dico sommessamente e con rispetto, ma è un dato di fatto che c’è chi lavora per fare un nuovo soggetto politico della sinistra, archiviando la questione comunista.

D. E quindi?

R. Quindi sono sempre più convinto del fatto che la Federazione non deve assolutamente lasciare sguarnito il fronte interno. Insomma, dentro la Federazione i comunisti vogliono giocare un ruolo? Io voglio mettere il mio Partito a disposizione di un progetto di ricomposizione dei comunisti su basi più larghe, che non faccia cessare la prospettiva di una sinistra più larga e di un sistema di alleanze, ma all’interno della quale i comunisti contino, abbiano un ruolo ed abbiano una vocazione egemonica. Lavorerò – lavoreremo - per questo.

India: bombe sui binari, forse 150 i morti. Le autorità accusano i maoisti






Di Daniele Cardetta

Lamiere attorcigliate disseminate tra i binari sabotati della ferrovia del Bengala occidentale restano a ricordare ai presenti il terribile attentato che ha colpito l’India. Almeno 110 i morti accertati, ma il bilancio delle vittime potrebbe aggravarsi ulteriormente e le autorità temono che si potrebbe parlare nel giro di poche ore anche di più di 150 morti.
Ma cosa è successo esattamente sulla ferrovia del Bengala occidentale? Cinque ordigni a bassa potenza sono state ritrovate a ridosso di un binario nello stato orientale di Orissa. Il deragliamento si è consumato con il favore delle tenebre, mentre i passeggeri ne approfittavano per dormire nel tragitto che li portava da Calcutta a Mumbai. Il punto dove è avvenuto lo scontro frontale con un treno merci proveniente dalla direzione opposta è locato in una zona territoriale in mano alla guerriglia maoista, e anche alcuni volantini maoisti sono stati rinvenuti in un edifico non troppo distante dal luogo dell’impatto. I sospetti delle autorità dunque cadono tutti sull’organizzazione paramilitare maoista, ormai ritenuta terrorista dal governo indiano sin dal 2009.
Per quanto ricostruire esattamente la dinamica del terribile incidente non sia del tutto possibile, pare che il deragliamento sia avvenuto per l’asportazione di alcune componenti metalliche che tenevano insieme le traversine del binario.
In tutto il Bengala occidentale ora i treni e i convogli notturni sono stati vietati e il governatore ha chiesto al governo un intervento più energico nei confronti della guerriglia maoista che sta lentamente avendo il sopravvento in molte regioni indiane. Sono più di 20mila i maoisti in armi che stanno mettendo in ginocchio le autorità, e sono diffusi in 21 dei 29 stati dell’Unione indiana.
Questo ultimo attentato, insieme ad altri assalti ai danni dei paramilitari e della polizia, mostrano che la guerriglia maoista sta operando un vero e proprio salto di qualità nel suo assalto allo Stato.

giovedì 27 maggio 2010

Vicina la guerra tra le due Coree, Pyongyang allerta l’esercito




La situazione tra le due Coree è sempre più tesa e i venti di guerra iniziano a spirare in modo sempre più insistente. La Corea del Nord infatti continua a difendersi dalle accuse di aver abbattuto la nave sudcoreana affermando che sarebbe stata proprio la marina di Seul a violare la propria frontiera marittima.

Da parte sua la Corea del Nord continua a minacciare ritorsioni tanto che sarebbe delle ultime ore la notizia che Kim Jong-Il avrebbe allertato il suo esercito mettendolo sul piede di guerra.

Da Pyongyang inoltre sarebbe arrivato anche un annuncio che avrebbe comunicato la rottura unilaterale di ogni rapporto con Seul finchè il presidente sudcoreano Lee Mytng-bak rimarrà in carica. Sarebbe stata inoltre anche stabilita l'espulsione del personale sudcoreano impegnato negli stabilimenti industriali di Kaesong.

Da Pyongyang si ripete nelle ultime ore con insistenza che varie navi sudcoreane avrebbero violato i confini della Corea del Nord, di conseguenza si sono minacciate ritorsioni immediate qualora tali intrusioni dovessero continuare nelle prossime ore. L'ordine di mobilitazione dell'esercito nordcoreano sarebbe quindi arrivato prima delle sanzioni comminate da Seul contro Pyongyang dopo la pubblicazione delle indagini sull'affondamento della corvetta Cheonan.

Pyongyang di fatto ha già deciso di vietare a qualsiasi mezzo sudocoreano di attraversare mari o cieli della Nordcorea scatenando quindi una ridda di voci e di speculazioni sul prossimo inizio di una guerra. Pyongyang dalla sua parte avrebbe infatti solamente la Cina, la quale infatti non si è accodata al coro unanime di condanna contro i toni e le decisioni prese da Kim Jong-Il e continua a premere per una soluzione negoziata della crisi.

Ora non resta che attendere con il fiato sospeso l'evolversi degli eventi sperando che sia a Seul, come Pyongyang, ci sia qualcuno abile a tenere i nervi saldi.

mercoledì 26 maggio 2010

La Giamaica è in fiamme: guerriglia a Kingston tra narcos e polizia




Se avete sempre immaginato la Giamaica come una assolata isola caraibica mèta di turismo e di svago vi siete sicuramente sempre sbagliati o perlomeno fatti fuorviare da superficiali cliché.

La vita nella capitale Kingston non è mai stata tranquilla neanche in condizioni normali, figurarsi poi in questi ultimi giorni, dove la guerriglia divampa a ogni incrocio. La scintilla scatenante è stata la decisione presa dalle autorità di arrestare Christopher Dudus Coke, noto narcotrafficante giamaicano che gode di ampia visibilità e simpatie tra le popolazione. Coke è ricercato anche negli Stati Uniti per droga e armi oltre che per aver lucrato grazie a un business colossale imperniato sulla sua organizzazione criminale chiamata Shower Posse, che avrebbe di fatto ereditato dal padre, ormai deceduto sin dal 1991.

Di fronte al rischio reale di estradizione le gang di Coke si sono scatenate e hanno attaccato ben quattro commissariati di polizia dandoli alle fiamme, nelle strade di Kingston inoltre sono state alzate barricate e sono avvenuti scontri, anche duri, con la polizia.

Dopo qualche giorno di scontri alla fine la polizia ha fatto irruzione nel covo di Dudus Coke, che da Kingston deve essere estradato in Usa. Secondo alcuni testimoni la zona sarebbe stata teatro di una cruenta sparatoria che avrebbe fatto anche numerose vittime e alcuni feriti. La situazione sarebbe talmente grave da aver indotto le autorità giamaicane a proclamare lo stato di emergenza per un mese. Secondo il premier Bruce Golding inoltre la polizia sarebbe pronta a reagire alle provocazioni e alla sfida lanciata dalle bande dei narcos.

La situazione è talmente grave a Kingston che la polizia ha fatto evacuare anche donne e bambini da alcuni quartieri, tutto questo mentre il leader del'opposizione Simpson Miller si è detto allarmato dalla risposta del governo, definita troppo morbida. Da segnalare tuttavia che Kingston è sempre stata una delle capitali del mondo più pericolose, con un tasso di crimini e omicidi altissimo.

lunedì 24 maggio 2010

Texas: dove il revisionismo è di casa


Che nel mondo esista qualcuno che senta dentro di sé un a profonda repulsione contro l'età dei Lumi e della ragione lo si sapeva, ma che esistesse qualcuno disposto anche ad accanirsi contro la propria storia non era così scontato. Tutti costoro in ogni caso oggi avranno una sorta di capitale dove potersi riconoscere, una sorta di capitale dei reazionari di tutto il mondo, il Texas.

In realtà quello che sta accadendo nelle scuole del Texas rasenta il grottesco, eppure è l'amara e triste verità. Innanzitutto nelle scuole dall'asilo fino ai licei per i prossimi 10 anni si dovrà venerare come modello l'alcolista ossessionato dai comunisti McCarthy, una delle pagine più nere di tutto il XX Secolo e non solo in Usa, a detrimento del progressista e liberale Thomas Jefferson, su cui in Texas si è decisa di applicare la damnatio memoriae.

Ma non è finita qui: i revisionisti texani hanno pensato bene di togliere dai programmi scolastici ogni chiaro riferimento alla separazione tra Stato e Chiesa e di accusare le Nazioni Unite, si avete proprio capito bene, di essere niente altro che una organizzazione anti-americana nata per rinnegare il capitalismo.

Ovviamente tali figuri non conoscono nemmeno troppo bene la loro storia dato che le Nazioni Unite sono state fortemente volute proprio dagli Stati Uniti, ma questi non sono che dettagli.

Questo vero e proprio uragano di follia texana lascia interdetti molti e non solo negli Stati Uniti anche perché d'ora in poi milioni di bambini texani studieranno su testi a dir poco ridicoli e infarciti di fanatismo e di esaltazione nazionalista.

Rod Paige, ex ministro dell'Istruzione nell'amministrazione Bush e quindi non certo un comunista, ha cercato inutilmente di opporsi a questo progetto, ma a quanto pare i suoi sforzi non sono valsi a nulla di fronte all'intransigenza dei texani.



di Daniele Cardetta

Tra i tanti deliri che il Board of Texas farà scrivere sui libri di testo anche il fatto che si parlerà di America come repubblica e non come democrazia, parola questa forse troppo insidiosa per i texani. I bambini dovranno avere ben presente inoltre che la separazione tra Stato e Chiesa sarebbe stata frutto di una invenzione della sinistra anti-cristiana. Delirante infine l'esaltazione dell'alcolista McCarthy, morto per cirrosi epatica a 48 anni, il quale è ricordato in tutto il mondo come uno dei fanatici della guerra fredda autore in patria di una colossale crociata che ha rasentato il ridicolo e che ha messo gli Stati Uniti in cattiva luce di fronte all'intero mondo civile.

Ma l'asso nella manica dei texani revisionisti è la crociata a favore del Creazionismo, ovvero il ritorno alla spiegazione biblica della natura e la messa al bando dell'odiatissimo e miscredente Darwin.

Se si pensa che siamo nel 2010 di certo non c'è da sorridere, non fosse che in Texas sta per ritornare un pizzico di medioevo in pieno XXI secolo.

domenica 23 maggio 2010

Thailandia, dopo il sangue ora la riconciliazione




Dopo giorni di guerriglia urbana, di conflitti armati e di minacce nemmeno troppo velate a Bangkok è finalmente arrivato il tempo della pacificazione. Il primo ministro Abhisit Vejjajiva ha annunciato via etere che l'ordine è stato ormai ripristinato in tutta la Thailandia e ha confermato il suo impegno nel promuovere una reale pacificazione.

Il bilancio delle vittime è intanto salito alla cifra provvisoria di 83, e i danni materiali sono ingenti tanto che le camicie rosse dopo essersi arrese all'esercito mercoledì hanno dato alle fiamme uffici e centri commerciali facendo precipitare la capitale nel caos.

Nel frattempo si sta parlando anche di possibili elezioni anticipate, anche se non appare probabile che tali elezioni possano svolgersi a novembre come era ipotizzato prima dell'esplodere della guerriglia per le strade di Bangkok.

Continuano nel frattempo le perlustrazioni dell'esercito all'interno di Hotel e di uffici alla ricerca di ribelli asserragliati o di presunti magazzini di esplosivi e armi abbandonati dai ribelli in tutta fretta dopo la resa.

Intanto al vita sta lentamente tornando alla normalità mentre il coprifuoco dovrebbe essere gradualmente abrogato con il trascorrere delle ore.

venerdì 21 maggio 2010

Venti di guerra sulle Coree




Soffiano di nuovo venti di guerra sulle due Coree. Per l'ennesima volta infatti, proprio quando i rapporti tra i due paesi storicamente rivali sembravano aver imboccato la lenta strada della cooperazione, si sta andando seriamente vicino a una rottura totale e a un conflitto vero e proprio.

Il governo di Seul infatti ha reso noto l'affondamento di una sua corvetta, la Cheonan, in cui avrebbero perso la vita ben 46 persone per via di un siluro lanciato dai militari nordcoreani. Seul ha ovviamente promesso un'azione forte contro Pyongyang mentre le autorità nordcoreane hanno negato con rabbia ogni addebito e sono arrivate a minacciare una guerra qualora Seul decidesse di portare anche a livello internazionale le sue proteste per proporre l'adozione di nuove sanzioni.

L'affondamento della Cheonan sarebbe avvenuto il 26 marzo 2010 e la commissione investigativa incaricata di raccogliere informazioni sulla tragedia avrebbe raccolto le prove, questo almeno stando a quanto si dice a Seul, che inchioderebbero la Corea del Nord di fronte alle proprie responsabilità.

Da parte sua Pyongyang nega in modo categorico qualsiasi coinvolgimento nella vicenda e alza anzi il livello dello scontro non mostrando alcun timore nei confronti delle parole aggressive pronunciate da Seul, e anzi alzando il tiro. Dopo aver definito come "imbottite di bugie" le conclusioni della commissione di inchiesta sudcoreana le autorità della Corea del Nord hanno annunciato l'adozione di "misure forti" fino alla "guerra generale" nel caso Seul dovesse mettere in pratica rappresaglie di qualsiasi natura. A Pyongyang si è anche parlato di "colpo di forza fisica senza pietà", a testimoniare che evidentemente nella capitale nordcoreana si è presa la cosa assai sul serio.

Unanime la condanna dell'Onu, degli Usa e della Gran Bretagna oltre che della comunità internazionale nel suo insieme, segnale questo di un vicino isolamento di Pyongyang. Anche gli Usa hanno fatto sapere di condividere i risultati dell'inchiesta di Seul sull'affondamento della corvetta e di condannare le azioni di Pyongyang in modo deciso. Ban Ki-moon, segretario dell'Onu, ha espresso grande preoccupazione così come il premier del Giappone Hatoyama, la quale ha definito "imperdonabile" l'atto consumato ai danni della corvetta sudcoreana.

Da Pechino invece arriva un richiamo alla moderazione e un invito alla pacificazione; ciò che è certo è che la situazione è incandescente e dopo le minacce di Pyongyang il livello di allerta nella regione è ai massimi livelli.

mercoledì 19 maggio 2010

G8 Genova: cacciate via i poliziotti condannati; tratto da www.nuovasocieta.it





«Ora tutti i condannati devono essere immediatamente rimossi dai loro incarichi ed essere espulsi dalla polizia»: è il commento di Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum (GSF) nel luglio 2001 e di Antonio Bruno, già membro del GSF, dopo la sentenza della Corte d'appello che ribaltando la sentenza di primo grado sull'irruzione nella scuola Diaz ha condannato anche i vertici della Polizia di Stato.«Non è accettabile che la difesa della Costituzione, della libertà e della sicurezza dei cittadini - scrivono Agnoletto e Bruno in una nota - sia affidata a chi è stato riconosciuto responsabile dal tribunale di reati estremamente gravi». «Finalmente dopo nove anni è stata resa giustizia alle vittime della violenza poliziesca, massacrate di botte la notte del 21 luglio 2001 - proseguono i due esponenti politici -. Con la condanna dei massimi dirigenti della Polizia presenti quella notte davanti alla Diaz il tribunale ha riconosciuto le responsabilità della catena di comando di chi ordinò, senza alcun motivo, l'assalto alla scuola Diaz.
Ora, conseguentemente, il governo dovrebbe rimuovere chi allora era ai vertici della polizia e non poteva non sapere cosa i suoi immediati sottoposti stavano facendo».
Ieri la Corte d'Appello aveva letto il dispositivo: un secolo di carcere per 25 imputati su 27.
Prescritti i reati di calunnia, arresto illegale e lesioni lievi, sono rimasti in piedi quelli di falso ideologico e lesioni gravi. Gli imputati sono stati condannati anche all'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Per gli agenti condannati in primo grado, i giudici della corte hanno inasprito le pene. Il procuratore generale Pio Macchiavello, aveva chiesto oltre 110 anni di reclusione per i 27 imputati.
La pena più pesante, cinque anni, è stata inflitta a Vincenzo Canterini, ex dirigente del reparto mobile di Roma, già condannato a quattro anni in primo grado. Quattro anni ciascuno a Francesco Gratteri, ex direttore dello Sco e attuale dirigente dell'Anticrimine e a Giovanni Luperi, ex vice direttore Ucigos e oggi all'Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna; entrambi erano stati assolti in primo grado. Tre anni e otto mesi sono stati inflitti Spartaco Mortola, ex capo della Digos di Genova e oggi questore vicario a Torino, anch'egli assolto in primo grado.
Sono passate da tre anni a quattro anni le pene per i «picchiatori» materiali, mentre per coloro che firmarono i verbali e che erano stati assolti in primo grado, la corte ha stabilito pene per tre anni e otto mesi ciascuno.
In fondo all'aula ad ascoltare la lettura della sentenza c'era anche «Coda di cavallo», l'agente filmato durante i pestaggi e identificato soltanto nel corso del processo di primo grado, dopo avere partecipato a numerose udienze, mescolato tra gli agenti. Prosciolti, per intervenuta prescrizione, Michelangelo Fournier, il funzionario di polizia che parlò di «macelleria messicana», pentendosi di quello che era successo, così come Luigi Fazio. In primo grado erano stati 13 gli imputati condannati, soltanto gli autori materiali dei pestaggi, per un totale di 35 anni e sette mesi di reclusione. Erano stati assolti tutti i vertici della polizia. Quella sera del 13 novembre 2008 i no-global e i simpatizzanti avevano accolto la sentenza gridando «Vergogna, vergogna». Questa volta, invece, c'è stato spazio solo per gli abbracci e le lacrime di gioia

martedì 18 maggio 2010

La Galassia della Sinistra






La sensazione di essere "ai minimi storici" per tutte le realtà politiche che si trovano alla sinistra del PD è una sensazione ricorrente e per certi versi reale. Negli ultimi anni si è infatti assistito al lento e inesorabile erodersi di un consenso che nemmeno fino a dieci anni prima veniva dato quasi, e colpevolmente, per scontato.

Ha fatto comodo a molti arrivare a una "semplificazione" del panorama politico italiano, una semplificazione da raggiungere inseguendo un bipolarismo dove proprio non si trova spazio per partiti minori, e verso tale processo hanno remato tanto il PDL quanto il PD di Walter Veltroni. Anche gli sbarramenti (si veda quello del 4% per le elezioni Europee) hanno contribuito a isolare sempre di più la sinistra "extraparlamentare", che ha perso per l'appunto anche ogni rappresentatività all'interno del Parlamento nazionale ed europeo.

Ma vista più da vicino, da che partiti e movimenti è composta questa galassia della sinistra extraparlamentare? e soprattutto quale può essere il suo peso politico dal punto di vista quantitativo e qualitativo? Cercheremo di rispondere a queste domande con una breve panoramica.

Innanzitutto bisogna partire dalla scissione operata all'interno di Rifondazione Comunista per mano di Nichi Vendola, il quale ha creato il nuovo partito Sinistra e Libertà insieme ad altre realtà politiche minoritarie come parte dei verdi e alcuni membri della galassia ex socialista. Rimane poi la sinistra comunista che si mostra forse come il soggetto più dinamico all'interno della galassia della sinistra in quanto ha perlomeno provato a invertire la rotta varando una politica "includente" e non escludente con la Federazione della Sinistra, un progetto che vede collaborare il Pdci di Oliviero Diliberto, il Prc di Paolo Ferrero e il movimento Socialismo 2000 di Cesare Salvi. Considerato che dal 1998 Prc e Pdci si vedevano quasi come rivali, la strada fatta a distanza di circa un anno dal varo della Federazione è già considerevole, anche se bisognerà ancora percorrere un lungo tratto prima di approdare alla concretizzazione di un unico nuovo partito comunista in Italia che possa raccogliere degnamente il testimone del PCI.

Ma la sinistra comunista non si ferma qui; oltre ai partiti "storici" del Pdci e del Prc vi è tutta una galassia di partiti e partitini più o meno organizzati e che contano più o meno aderenti ma che mostrano una certa vitalità. Vista la situazione drammatica in cui versa la sinistra in ogni caso appare perlomeno grottesco apprendere che tra i tanti (ne ometterò di certo qualcuno e dunque chiedo venia in anticipo) partiti comunisti annoveriamo: Alternativa Comunista (con sede a Roma e sito web http://www.alternativacomunista.org/), Sinistra Critica (http://www.sinistracritica.org/) nata per via dell'ennesima scissione interna al Prc grazie a Turigliatto; il Partito Comunista dei Lavoratori (http://www.pclavoratori.it/files/index.php?c3:o644) nato sempre da una scissione dal Prc per mano questa volta di Ferrando; il Partito Marxista-leninista Italiano (http://www.pmli.it/) con sede a Firenze;e i Carc (http://www.carc.it/) con sede a Milano. Vi sono poi altri gruppi presenti nel territorio come ad esempio Lotta Comunista, che ha sede a Torino in Via Bardonecchia, e ha altre sedi in giro per l'Italia ma che non è possibile definire come un vero e proprio partito politico.

Chiaramente non si sta parlando di partiti che muovono migliaia di aderenti, anche perché la Federazione della Sinistra e Sinistra e Libertà, che sono le due realtà principali, a loro volta non se la passano per nulla bene, tuttavia la loro presenza e il loro proliferare è forse la spia di un vulnus che da sempre affligge la sinistra e non solo quella di casa nostra. La tendenza a dividersi e a frazionarsi infatti è insita nella stessa storia della sinistra ed è proprio per questo che ho deciso di dedicare maggiore spazio all'esperimento della Fds. Quello della Federazione della Sinistra infatti, indipendentemente se poi arriverà a buon fine o meno, rappresenta comunque un innovazione all'interno del panorama politico a sinistra del PD in quanto, come abbiamo già detto, rappresenterebbe un primo tentativo di mettere insieme e non di dividere. Riuscire infatti a trovare una casa comune all'interno della quale lavorare insieme avrebbe un valore più politico che quantitativo dato che, lo ripetiamo, non stiamo di certo parlando di partiti dal 10%.

Forse, la via del riscatto passa proprio da qui, dal mettere insieme e non dal dividere

lunedì 17 maggio 2010

2 alpini morti in Afghanistan. Tratto da www.nuovasocieta.it




Due alpini della Brigata Taurinense sono morti e altri due sono rimasti feriti in modo grave nell'esplosione di un ordigno che ha colpito un blindato Lince che faceva parte di un convoglio in movimento verso il nord dell'Afghanistan. Le vittime sono il sergente Massimiliano Ramadù, 33 anni, originario di Velletri (Roma), e il caporalmaggiore Luigi Pascazio, 25 anni, originario di Grumo Appula (Bari). Tra i due feriti figura anche una donna: Cristina Buonacucina, caporale del 32.esimo reggimento Genio «Taurinense», originaria di Foligno. Il secondo militare ferito è Gianfranco Scirè, 28 anni, di Casteldaccia, un comune in provincia di Palermo. Con le due vittime di oggi sale a 24 il numero degli italiani morti in Afghanistan dall'inizio della missione, nel 2004.

Secondo quanto si è appreso, i quattro militari italiani si trovavano a bordo di un veicolo blindato Lince posizionato nel nucleo di testa di una colonna composta da decine di automezzi di diverse nazionalità, partita da Herat e diretta a Bala Murghab, verso nord. Dalle prime ricostruzioni risulta che il veicolo colpito occupava la quarta posizione lungo il convoglio che era in movimento e si trovava a 25 chilometri a sud di Bala Murghab. Allo stato attuale i soldati italiani dispiegati nella regione ovest del paese asiatico, sono circa 2.800. Il contingente nazionale di stanza a Herat è dal 20 aprile 2010 al comando del generale di Brigata Claudio Berto, comandante della brigata alpina «Taurinense».

Dal prossimo mese di giugno arriveranno circa mille uomini, rinforzi decisi dal governo nell'ambito della nuova strategia fortemente voluta dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama e approvata dalla Nato. Il presidente della camera, Gianfranco Fini, esprime cordoglio per la morte dei due soldati italiani caduti a Herat. «Lo scacchiere internazionale continua a provocare lutti e tragedie. Rivolgo - ha detto Fini aprendo un convegno sulla moratoria alla pena di morte - alle forze armate e alle famiglie dei due militari morti in Afghanistan il senso della più cordiale e sincera partecipazione».

Al comando della Brigata Taurinense di Torino, nella Caserma Garibaldi di Corso Quattro Novembre, sono pochi i militari rimasti: tutta la brigata, di fatto, è schierata in Afghanistan. La notizia dell'attentato è arrivata in tempo reale alla sede del comando torinese della brigata ed ha lasciato scossi i colleghi dei militari uccisi e feriti. «È così...», si lascia sfuggire commosso uno dei loro compagni nei pressi della caserma, al cui comando è adesso il generale Francesco Paolo Figliuolo.

Thailandia: ora è massacro





Il bilancio di lutti e di feriti a Bangkok si aggrava di ora in ora. Nei nuovi scontri tra camicie rosse ed esercito sale infatti a 24 il numero delle vittime e a 187 quello dei feriti dopo tre giorni di scontri e di guerriglia urbana per le strade della capitale.

Le camicie rosse fedeli all'ex premier Shinawatra si sono asserragliate in un quartiere della capitale e chiedono a gran voce nuove elezioni. I soldati del governo hanno risposto colpo su colpo alla guerriglia scatenata dalle camicie rosse e l'esercito ha inoltrato un ultimatum che, qualora dovesse essere lasciato cadere, autorizzerà l'esercito a fare irruzione nell'area occupata ormai dai primi giorni di aprile.

I giornalisti intanto iniziano a lasciare il paese e il clima nella capitale è surreale. Da parte sua il governo si mostra ben deciso a non cedere e annuncia una stretta repressiva contro qualsiasi gruppo armato presente nel territorio thailandese.

I soldati del resto hanno isolato il fortilizio dove si sono asserragliate non più di diecimila camicie rosse, impedendo dunque ai ribelli di poter ricevere cibo e attrezzature dall'esterno. In queste condizioni, e visto anche che il governo ha richiamato in tutta fretta rinforzi dal resto del paese, è molto difficile che le camicie rosse di Shinawatra potranno resistere a lungo.

Ban Ki –Moon, segretario dell'ONU, ha lanciato un appello per una pronta pacificazione, ma sembra che a Bangkok non ci sia nessuno pronto a dargli ascolto, almeno per il momento.

I prossimi giorni saranno decisivi per capire cosa accadrà in Thailandia, nella speranza che non si debba parlare di nuovi caduti.

sabato 15 maggio 2010

Le riflessioni del compagno Fidel




La nostra epoca si caratterizza per un fatto che non ha precedenti: la minaccia alla sopravvivenza della specie umana imposta dall’imperialismo al mondo.

La dolorosa realtà non dovrebbe sorprendere nessuno. La si vedeva venire a passo accelerato negli ultimi decenni, ad un ritmo diffIcile da immaginare.

Questo significa che Obama è responsabile o promotore di questa minaccia? No! Dimostra semplicemente che ignora la realtà e non vuole, né potrà superarla. Piuttosto sogna cose irreali in un mondo irreale. “Idee senza parole e parole senza senso”, come ha detto un brillante poeta.

Anche se lo scrittore nordamericano Gay Talese, considerato uno dei principali rappresentanti del nuovo giornalismo, ha assicurato il 5 maggio -come informa un’agenzia di notizie europea - dice che Barack Obama incarna la miglior storia degli StatI Uniti nell’ultimo secolo, quello che si può condividere sotto alcuni aspetti non altera per niente la realtà obiettiva del destino umano.

Occorrono fatti come il disastro ecologico appena avvenuto nel Golfo del Messico per dimostrare quanto poco possono i governi contro coloro che controllano il capitale, quelli che, tanto negli Stati Uniti come in Europa, attraverso l’economia nel nostro pianeta globalizzato, decidono il destino dei popoli. Prenderemo come esempio le misure che partono dallo stesso Congresso degli Stati Uniti, pubblicate dai media della stampa più influente di questo paese e dell’Europa, così come sono state diffuse in Internet, senza alterare una parola.

"Radioe TV Martí mentono diffondendo informazioni senza fondamenta, riconosce un rapporto della Commissione delle Relazioni Estere del Senato nordamericano, che raccomanda che le due stazioni si ritirino definitivamente da Miami per ri-localizzarle a Washington, per integrarle “pienamente” all’apparato propagandistico della Voce d’America”.

"Oltre ad ingannare il loro pubblico, le due emittenti usano un linguaggio offensivo ed incendiario che le squalifica”.

"Per 18 anni Radio e TV Martí hanno inutilmente cercato di penetrare in maniera sensibile la società cubana o d’influenzare il governo cubano.”

"Il rapporto diffuso questo lunedì raccomanda di fondere l’Ufficio di trasmissioni per Cuba –OCB in inglese- con la Voce d’America, la radio ufficiale di propaganda del governo degli Stati Uniti”.

"Problemi con il rispetto delle norme giornalistiche tradizionali, un’udienza minuscola, interferenze radiofoniche del Governo cubano, e allegati di nepotismo e d’amicizia hanno danneggiato il programma dal principio”, riconosce la Commissione, presieduta dal Senatore democratico John Kerry.

"Il Comitato raccomanda di spostare urgentemente le due stazioni di Miami, sottolineando la necessità d’assumere in modo più equilibrato il personale, per ottenere un prodotto non politicizzato e di professionisti”, valutano i senatori.

"Il rapporto Kerry fa riferimento ad Alberto Mascaró, il nipote della moglie di Pedro Roig, Direttore Generale di Radio e TV Martí, assunto grazie alla sua parentela con il direttore del servizio latino-americano di la Voce d’America.

"Il documento riporta dettagliatamente come, nel febbraio del 2007, l’ex direttore della programmazione di TV Martí, assieme ad un parente di un membro del Congresso, hanno confessato la propria colpevolezza in una Corte Federale, per aver ricevuto circa 112.000 dollari in commissioni illegali da parte di un responsabile della OCB. L’ex impiegato della OCB è stato condannato a 27 mesi di carcere ed a pagare una multa di 5.000 dollari per essersi accaparrato il 50 per cento di tutto il denaro pagato a TV Martí per la produzione di programmi per la ditta Perfect Image."

Sin qui l’articolo di Jean Guy Allard apparso nel sito web di Telesur.

Un altro artícolo, dei professori nordamericani Paul Drain e Michele Barry, dell’Università di Stanford (California), è stato riportato nel sito di Internet “Rebelión”, e informa:

"Il blocco commerciale USA-americano contro Cuba, promulgato subito dopo che la Rivoluzione di Fidel Castro eliminò il regime di Batista, tocca i suoi 50 anni nel 2010. Il suo obiettivo esplicito è consistito nell’aiutare il popolo cubano ad ottenere la democrazia, ed una relazione del 2009 del Senato degli USA ha concluso che il blocco unilaterale contro Cuba è un fallimento."

"Nonostante il blocco, Cuba ha ottenuto migliori risultati sanitari della maggior parte dei paesi latinoamericani paragonabili a quelli della maggioranza dei paesi sviluppati. Cuba ha una speranza di vita media più alta (78,6 anni) e la maggior densità di medici pro-capite, con 59 dottori ogni 10.000 abitanti; il tasso più basso di mortalità dei minori di un anno (il 5,0 per ogni 1.000 bambini nati vivi, e di mortalità infantile (il 7,0 per ogni 1000 bambini nari vivi) tra i 33 paesi latinoamericani e dei Caraibi”.

"Nel 2006, il governo cubano ha destinato 355 dollari pro-capite alla sanità". "Il costo sanitario annuale destinato ad un cittadino degli USA nello stesso anno è stato di 6714 dollari. Cuba ha anche destinato meno fondi alla sanità della maggioranza dei paesi europei. Ma se i bassi costi nell’assistenza sanitaria non spiegano il successo di Cuba, potrebbero sottolineare la prevenzione delle malattie e le cure sanitarie primarie che l’Isola ha coltivato durante il blocco alla prevenzione commerciale USA americano.”

"Cuba dispone di uno dei sistemi di cure sanitarie primarie preventive più avanzate del mondo. Con l’educazione della popolazione nella prevenzione delle malattie e la promozione della salute, i cubani dipendono meno dai prodotti medici per mantenere sana la popolazione. Negli USa succede il contrario, dato che la salute della popolazione dipende enormemente dalle risorse mediche e tecnologiche, con costi economici molto elevati”.

"Cuba presenta il tasso più alto del mondo di vaccinazioni e parti assistiti da esperti lavoratori della sanità. Le cure e l’assistenza offerti nei consultori, nei policlinici e nei maggiori ospedali regionali e nazionali sono gratuiti per tutti i pazienti”.

"Nel marzo del 2010, il Congresso degli USA ha presentato un progetto di legge per rafforzare il sistema sanitario ed ampliare l’invio di lavoratori sanitari esperti in paesi in via di sviluppo. Cuba continua ad inviare medici a lavorare in diversi paesi tra i più poveri del pianeta: una pratica iniziata nel 1961”.

"Sul fronte USA-americano interno, dato il recente impulso in appoggio di una riforma sanitaria, esistono opportunità per apprendere da Cuba valide lezioni, su come sviluppare un sistema sanitario veramente universale, che ponga l’accento nelle cure primarie. L’adozione di alcune politiche sanitarie tra le più positive di Cuba, potrebbe essere il primo passo verso una normalizzazione delle relazioni. Il Congresso potrebbe incaricare l’Istituto di Medicina di studiare le conquiste del sistema sanitario cubano, per iniziare una nuova era di cooperazione tra gli scienziati USA -americani e cubani."

Il portale di notizie Tribuna Latina ha pubblicato recentemente un articolo sulla nuova Legge d’Immigrazione in Arizona:

"Secondo un sondaggio pubblicato dalla catena CBS e dal quotidiano The New York Times, il 51 per cento considera che la legge è una messa a fuoco adeguata all’immigrazione, mentre il 9 per cento considera che si dovrebbe andare più in là in questa materia. Di fronte a questo, il 36 per cento considera che in Arizona sono andati davvero troppo in là”.

“Due su tre repubblicani sostengono la misura, ma solo il 38 per cento dei democratici si mostra a favore della legge”.

“Uno su due riconosce che è molto probabile che come conseguenza di questa legge si arresteranno persone di determinati gruppi razziali o etnici, con maggior frequenza di altri ed il 78 per cento riconosce che ci sarà un maggior lavoro per la polizia.

“Il 70 per cento considera probabile che come conseguenza di questa misura il numero dei residenti illegali e l’arrivo di nuovi immigranti si ridurranno”.

Giovedì 6 maggio con il titolo:"Arizona: Un morto di fame presunto", è stato pubblicato un articolo della giornalista Vicky Peláez in Argenpress, che comincia ricordando una frase di Franklin D. Roosevelt: "Ricordati, ricordati sempre che siamo tutti discendenti d’immigranti e rivoluzionari”.

È un documento così ben elaborato che non voglio concludere questa Riflessione senza includerlo.

"Le marce di moltitudini di questo Primo Maggio contro la nefasta legge contro gli immigranti approvata in Arizona hanno scosso tutto il Nordamerica. Nello stesso tempo migliaia di statunitensi, politici avvocati, artisti, organizzazioni civiche, reclamano che il governo dichiari incostituzionale la Legge SB1070 che somiglia alle leggi della Germania nazista o del Sudafrica nei tempi del apartheid”.

"Senza dubbio, nonostante le forti pressioni contro la nefasta legge, né il suo governo, né il 70 per cento degli abitanti di questo Stato vogliono accettare la gravità della situazione creata per usare gli illegali come colpevoli della severa crisi economica che stanno attraversando. Mentre chiedono denaro a Barack Obama per pagare 15 mila poliziotti, stanno radicalizzando la loro politica razzista. La governatrice Jan Brewer ha dichiarato che l’immigrazione illegale implica l’aumento del crimine ed il sorgere del terrorismo nello Stato”.

"Paragonare i senza documenti a terroristi autorizza la polizia a sparare contro le persone solo per il colore della loro pelle, per i loro vestiti, per quello che hanno in mano o persino per il loro modo di camminare. Senza dubbio danneggerà anche i 280.000 latino americani nativi che vivono emarginati ed in estrema povertà, come altre minoranze, oltre agli ispanici, che hanno cercato rifugio e lavoro in questa zona arida degli Stati Uniti”.

"Seguendo il repubblicano Pat Buchanan, che dice: “Gli Stati Uniti devono svolgere la più forte crociata per la liberazione del nordamerica dalle onde barbare di affamati stranieri, portatori di malattie esotiche, la governatrice Brewer, dopo l’attacco ai frontalieri , agli operai della costruzione, ai domestici, ai giardinieri, ai lavoratori delle pulizie, ha messo in moto la sua campagna contro i maestri ispanici”.

“In accordo con il nuovo decreto, i maestri con marcato accento non potranno insegnare nelle scuole. Ma la sua crociata non termina lì, perchè la pulizia etnica in tutti tempi storici è sempre stata accompagnata dall’ideologia.

Per questo gli studi ed i progetti etnici sono stati aboliti nelle scuole ed è proibito anche l’insegnamento di temi che possono promuovere risentimenti verso una razza od una classe sociale. Questo implica politicizzare la conoscenza, trasformando i miti creati dal sistema nordamericano.

In realtà significa anche mandare in esilio i pensatori più rispettati negli USA, come Alexis de Tocqueville che nel 1835 diceva che dove un anglo-americano pone il suo stivale, quello sarà per sempre suo.

La provincia del Texas appartiene sempre ai messicani, ma presto non ci saranno più messicani là. E cosa succederà negli altri luoghi?

"L’unica coscienza dei razzisti è l’odio e l’unica arma per vincerlo è la solidarietà tra gli uomini. Questo Stato è già stato battuto quando negò di stabilire come festività il giornodi Martín Luther King, ed il boicottaggio fu fortissimo e molto compatto ...”

Fidel Castro Ruz

7 Maggio del 2010

Ore 18.15
(Traduzione Gioia Minuti)

venerdì 14 maggio 2010

Ordigno ad Atene

Un ordigno è deflagrato nei pressi del carcere di massima sicurezza di Atene nel sobborgo Korydallos. L’esplosione è stata di grandi dimensioni anche se sembrano almeno per il momento non esserci state vittime ma solo danni.
Il quotidiano Eleftherotypia ha ricevuto una telefonata anonima che avrebbe annunciato l’imminente esplosione, fatto poi effettivamente verificatosi proprio qualche minuto dopo. L’esplosione è stata fortissima tanto che è stata udita a chilometri di distanza e molti cittadini si sono spaventati a seguito del grande botto. L’ordigno sarebbe stato posizionato in un cassonetto dell’immondizia proprio a ridosso delle mura del carcere di massima sicurezza, ma non sembra che l’edificio sia rimasto danneggiato.
Dopo il tragico episodio della banca di Atene data alla fiamme nella capitale ellenica dunque torna la violenza a segnalare quanto la situazione sociale ed economica sia sul punto di esplodere. L’ordigno del carcere di Korydallos rappresenta infatti un salto di qualità nell’escalation di violenza che sta avvenendo in Grecia, e la paura è che con il varo delle draconiane misure di restrizione economica la situazione possa in qualche modo ancora aggravarsi.

giovedì 13 maggio 2010

Caso Gugliotta, inquietanti domande ; tratto da www.nuovasocieta.it




Era stato arrestato il 5 maggio scorso a Roma, Stefano Gugliotta, al termine della finale di Coppa Italia tra Roma e Inter. Ieri è stato scarcerato, in quanto non sussisterebbero più le esigenze di custodia cautelare. Sulla testa del 25enne pesa sempre l'accusa di resistenza a pubblico ufficiale, l'unica che per ora gli è stata addebitata. Un'accusa che stride drammaticamente con le immagini delle ripetute percosse sul corpo di Gugliotta, ad opera di alcuni poliziotti, mentre era in sella al suo scooter in via Pinturicchio.

Del resto la richiesta alla base della decisione di scarcerare Gugliotta – da parte del procuratore aggiunto Pietro Saviotti e del sostituto Francesco Polino al termine di un incontro con gli investigatori – non lascia spazio ad interpretazioni: il presupposto è che "sia stato vittima di un atto arbitrario". A quel punto il giudice per le indagini preliminari Aldo Morgigni, lo stesso che aveva emesso il provvedimento cautelare nei confronti di Gugliotta per le accuse di oltraggio, resistenza e violenza a pubblico ufficiale, ha disposto la scarcerazione.

E' naturale e ovvio, arrivati a questo punto, che sorga un primo interrogativo inquietante: perchè mai il giovane è stato trattenuto agli arresti per una settimana? Chi pagherà per quanto è successo?

La seconda notizia di ieri è che c'è un primo indagato: si tratta del poliziotto che ha sferrato un pugno al momento del fermo di Gugliotta, iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di lesioni volontarie, aggravate dalla condizione di pubblico ufficiale. Si tratta di un agente del Reparto Mobile in servizio da circa 15 anni, ovviamente descritto dai colleghi come "una persona tranquilla". Non risulta però che né l'interessato dal provvedimento giudiziario né gli altri tre agenti dello stesso reparto, ascoltati ieri in Procura, siano stati finora sospesi dal servizio.

Intanto, il 25enne è tornato alla sua vita duramente provato dalla drammatica esperienza. E si appreso, sempre nella giornata di ieri, che aveva comunicato al padre la decisione di voler iniziare uno sciopero della fame.

Decisione scongiurata dagli eventi, mentre infuria la polemica politica. Se il ministro per i Rapporti col Parlamento Elio Vito – rispondendo ad un 'question time' del Pd alla Camera – ha spiegato che "qualora venissero accertate al termine dell'indagine responsabilità penali nei confronti di uno o più appartenenti alle forze dell'ordine il ministero dell'Interno si costituirà parte civile", lo stesso Vito ha voluto sottolineare – in modo del tutto sconveniente – i presunti precedenti del giovane per "rapina, lesioni personali, guida in stato di ebbrezza e per uso di droga" (presunti perchè messi in discussione dal segretario radicale Staderini).

E non stupisce, dunque, che dall'opposizione sia stato duramente condannato l'arbitrario accostamento tra un fatto di cronaca che ha mostrato Gugliotta come vittima di violenze a freddo da parte di alcuni esponenti delle forze dell'ordine e precedenti vicende che con i fatti in questione non c'entrano nulla: "E' sconvolgente – ha scritto l'Italia dei Valori del Lazio in una nota – che il ministro Vito parli di episodi che attengono al passato di Stefano Gugliotta, rievocando la sospensione della patente che è avvenuta due anni fa, non accennando minimamente al presente di Stefano che è fatto di carcere, ematomi sulle gambe, lividi di manganelli sulla schiena, un dente rotto e numerosi punti di sutura in testa".

"A prescindere da qualunque ipotesi di reato contestata a Stefano Gugliotta – ha aggiunto Emanuele Fiano, responsabile Sicurezza del Pd – le scene che registrano la violenza subita da questo ragazzo sono fuori dallo Stato di diritto. L'esigenza di assicurare l'ordine pubblico non può mai autorizzare atti di violenza ripetuta nei confronti di fermati, chiunque essi siano".

"Letteralmente sconcertante", secondo il segretario dei Radicali Mario Staderini, la presentazione dei fatti da parte del governo: "Di fronte ad un'operazione di polizia che rischia di delinearsi come un rastrellamento indiscriminato – ha osservato Staderini – il ministro Vito prova a spostare l'attenzione gettando fango su un cittadino italiano che si trova di fatto sequestrato dallo Stato dopo averne subito l'aggressione fisica. Peraltro – ha aggiunto – fare riferimento a segnalazioni e denunce per una persona che al casellario giudiziario risulterebbe incensurata e senza carichi pendenti è un tentativo vergognoso di manipolare l'opinione pubblica".

mercoledì 12 maggio 2010

Etiopia: alta tensione prima delle elezioni



di Daniele Cardetta

Pochi sanno che in Etiopia, sfortunato paese africano, si terranno le elezioni il 23 maggio 2010. L’Etiopia si prepara all’evento non certo nel modo migliore, anzi ad Addis Abeba regna un clima di incertezza e di tensione che sembra per certi versi quasi palpabile. Ad avvalorare questa situazione per nulla semplice la morte di ben quattro persone negli ultimi giorni, morti che fanno pensare a una possibile escalation di violenza che potrebbe condizionare il corretto svolgimento delle elezioni. Proprio pochi giorni fa un militante di un partito di opposizione è stato freddato per strada mentre era intento a distribuire materiale elettorale.
Le accuse tra i partiti riguardo ai recenti decessi sono reciproche e il fatto che tali delitti si siano consumati in pieno giorno non fa che rendere ancora più grave la cornice di instabilità che si trova per le strade di Addis Abeba. Venerdì scorso inoltre anche un poliziotto sarebbe stato ucciso a coltellate probabilmente da alcuni esponenti dell’opposizione più radicale, dunque le autorità sembrano essere per il momento non del tutto capaci di tenere sotto controllo la situazione.
In palio in queste elezioni del resto c’è molto, da un lato c’è il governo di Zenawi con la sua coalizione EPRDF (Ethiopian Revolutionary Democratic Front), la quale comprende vari partiti a base etnica tra cui il TPLF (Tigrayan People’s Liberation Front) che non ha nessuna intenzione di cedere nulla all’opposizione, dall’altro l’opposizione chiamata Medrek, un cartello di vari partiti tra cui l’ARENA Tigrai, e l’UEDF (Regno delle forze etiopi democratiche).
Si segnala che il partito di Zenawi è in carica ormai da vent’anni, e che proprio nelle scorse elezioni del 2005 aveva visto erodersi parecchio del suo consenso nel paese, dunque è per certi versi comprensibile l’importanza di questa tornata elettorale.

martedì 11 maggio 2010

SALARI - DILIBERTO: "DATI CONFERMANO CHE LOTTA DI CLASSE E' PIU' CHE MAI LEGITTIMA"





I dati sui salari, che collocano l'Italia al 23° posto per gli stipendi, con guadagni inferiori al 16,5% rispetto alla media dei trenta Paesi dell'Ocse,
e che fanno il paio con i terribili numeri della disoccupazione, dimostra che la lotta di classe in Italia è più che mai leggittima e che a vincerla al momento sono i padroni, sostenuti dal Governo più classista della Repubblica. I dati sono anche un monito per la sinistra: salari e lavoro sono infatti le vere emergenze da cui ripartire per invertire una tendenza sociale che grida vendetta". E' quanto afferma Oliviero Diliberto, segretario nazionale del PdCI, a commento del Rapporto 'Taxing Wages' dell'Ocse diffuso oggi.

Qualche dato per discutere seriamente del percorso rivoluzionario bolivariano Pedro Santander * - Punto Final, tratto da www.resistenze.org




A fronte di una campagna mediatica internazionale che sistematicamente denigra e deforma la realtà venezuelana, mentre quella locale promuove solo una canea scandalistica, è difficile avere un quadro informativo autentico circa il processo bolivariano. Facciamo, quindi, un rapido sommario dei risultati ottenuti in questi 11 anni di potere bolivariano (1998-2009).

Tale sommario nasce dai dati duri e obiettivi di varia fonte, alcuni ufficiali (INE, Banca Centrale, Ministero di Pianificazione) e soprattutto il resoconto annuale (2009) pubblicato dal “Center for Economic and Policy Research” (CEPR) degli Stati Uniti. Una fonte riconosciuta a livello internazionale e che nessuno può certo accusare di essere di sinistra.

Crescita Economica

Il Venezuela mostra una crescita economica stabile e continua negli ultimi 12 anni di governo rivoluzionario. La crescita ha avuto uno stop solo durante il golpe e la serrata petrolifera (2002/2003).

Il paese mostra un’economia solida già da 20 trimestri consecutivi. Secondo il CEPR, l’economia é cresciuta con una media di 4.3 punti annuali negli ultimi 9.25 anni. Su base pro capite significa una crescita totale pari a 18.2 punti, 1.9 l’anno. Si deve notare che questa è una crescita immensa rispetto a prima (durante la cosiddetta IV Repubblica), che risulta meno spettacolare soltanto se confrontata con la media regionale.

La crescita non ha beneficiato soltanto il popolo ma anche il settore privato. Quest’ultimo, infatti, negli ultimi anni è cresciuto maggiormente del settore pubblico, in particolare quello finanziario e quello assicurativo, che durante questa espansione hanno registrato una crescita del 258.4% con una media del 26.1 l’anno. Il settore edile è cresciuto del 159.4 %, quello delle comunicazioni del 151% e quello manifatturiero del 98.1%.

Povertà e disuguaglianza

In questo decennio il Venezuela mostra livelli storici di aggiustamento tributario e di riserve internazionali, elementi che uniti alla politica governativa hanno inciso come mai prima d’ora nelle politiche sociali, nel ridurre il tasso di povertà e degli indici di disuguaglianza sociale.

La percentuale di abitazioni povere è diminuita di più della metà (dal 54% al 26%) mente quelli di povertà estrema sono diminuiti del 72%, arrivando a un 7% del totale delle abitazioni. Questo è un risultato significativo sottolineato dal CEPR, che al proposito dice: “... tale risultato consente al Venezuela di avere concretamente eliminato la povertà estrema”.

Vale la pena di menzionare com’è cresciuto in termini reali il salario minimo dei venezuelani; vi è stato un tasso di crescita costante dal 1999 (quando era all’incirca di 198 dollari), a fronte di una politica diversa da quella raccomandata dal FMI. Oggi vige uno dei salari più alti dell’America Latina: 446 dollari, una crescita salariale che parallelamente ha implicato un incremento nella capacità di acquisto del venezuelano e uno stimolo importante al consumo interno.

Quanto sopra ha sottinteso una sfida alle politiche di controllo dell’inflazione.

Chávez nel 1998 si è posto a capo di un paese col 30% d’inflazione (secondo la Banca Centrale il governo di Andrés Pérez aveva una inflazione di circa 44.2%). Tale cifra è scesa al 12.3% negli anni seguenti, ma la serrata petrolifera del 2003 ha comportato un nuovo aumento, facendola arrivare al 38.7% nel febbraio di quell’anno. Ora si è stabilizzata intorno al 24%.

Anche la spesa sociale è aumentata, passando dal 37% dalla spesa generale nel 1998 al 59.5% nel 2007. Questa spesa sociale è possibile grazie ai livelli storici di adeguamento tributario e all’uso della rendita petrolifera per costruire una struttura statale parallela che sostituisca quella tradizionale, cioè in grado di farsi carico della sanità, dell’educazione e del sostentamento. Vale a dire ciò che oggi si conosce attraverso le cosiddette “Missioni”, un programma di servizio sociale che ha esteso la sua protezione duplicando la sua portata in confronto a quello esistente nel 1998.

E’ così che la mortalità infantile è scesa da 21.4 bambini su mille nati a 13.7.

Nel 1998, 4 milioni di venezuelani non avevano accesso all’acqua potabile, oggi copre il 92% della popolazione.

Impiego

Un altro dei successi del governo bolivariano, in controtendenza rispetto alla maggior parte dei paesi dell’area, è la diminuzione dell’impiego informale e l’aumento di quello formale. In Venezuela, come in quasi tutti i paesi dell’America latina, il lavoro nero era altissimo. Quando il potere rivoluzionario assume il potere il lavoro informale arriva al 42,8% della forza lavoro contro un 45.4% del lavoro formale. Nel 2008, l’impiego informale si abbassa al 40.4%.

Difficilmente un altro paese del continente può dimostrare un risultato del genere.

E’ degno di nota che in parallelo stia emergendo un nuovo modello socioeconomico, al cui centro vi è l’impulso alla creazione di cooperative. Da 877 cooperative esistenti nel 1998, si è passati a più di 30 mila cooperative attive che danno lavoro a più di 2.7 milioni di venezuelani, cioè a circa il14% della forza lavoro e implicano un contributo del 8% alla crescita del PIL.

Conclusioni

Sono molti i successi che dimostrano come si è lavorato in questi 12 anni di governo bolivariano: i livelli storici mai raggiunti prima di riserve finanziarie, il modello di commercio internazionale, il recupero delle terre agricole, l’impulso al mercato interno, l’eliminazione della pesca a strascico, ecc. Cui possiamo aggiungere i conseguenti successi elettorali.

Non vogliano produrre la falsa idea che oggi non vi siano problemi e che tutto sia perfetto, senza dubbio sfide ed errori, che sono tipici di questo percorso e che sono enfatizzati costantemente dai media, terranno impegnata la stampa. Qui abbiamo soltanto voluto informare sui dati oggettivi che gettano le basi reali per le future discussioni sugli errori.

Pubblicato in“Punto Final”, Nº 708, 30/04/2010

* Pedro Santander fa parte della Pontificia Università Cattolica di Valparaiso

La guerra afghana: armi, sangue e affari per l’oppio. Tratto da www.Nuovasocietà.it di John Jiggens e traduzione di Andrea Carancini





Era normale, all'inizio della guerra contro l'Iraq, vedere slogan che proclamavano: "Niente sangue per il petrolio". La motivazione di facciata della guerra – i legami con Al Qaeda di Saddam e le sue armi di distruzione di massa – erano ovvie mistificazioni di massa, che nascondevano un programma imperiale molto meno digeribile. La verità era che l'Iraq era un importante produttore di petrolio e, nella nostra epoca, il petrolio è la risorsa più strategica in assoluto. Per molti era ovvio che il programma vero della guerra era il controllo imperialistico del petrolio iracheno. Questo venne confermato quando la compagnia petrolifera statale dell'Iraq venne privatizzata all'indomani della guerra in funzione degli interessi occidentali.

Perché quindi non ci sono slogan che dicono: "Niente sangue per l'oppio"? Il primo prodotto dell'Afghanistan è l'oppio e la produzione di oppio è straordinariamente aumentata durante l'attuale guerra. L'azione in corso della NATO a Marjah è chiaramente motivata dall'oppio. Si dice che sia la principale area di produzione dell'oppio dell'Afghanistan. Perché allora la gente non pensa che il vero scopo della guerra afghana è il controllo del traffico dell'oppio?

Le armi di mistificazione di massa ci dicono che l'oppio appartiene ai talebani e che gli Stati Uniti stanno combattendo contro la droga così come contro il terrorismo. Tuttavia rimane il fatto singolare che il traffico di oppio dell'Asia orientale, negli ultimi 50 anni, ha percorso un tragitto da est a ovest, seguendo le guerre americane, e sempre sotto il controllo degli apparati americani.

Negli anni '60, quando gli Stati Uniti combattevano in Laos una guerra segreta utilizzando l'esercito Hmong dell'oppio di Vang Pao come suo mandatario, l'Asia sudorientale produceva il 70% dell'oppio illegale del mondo. Dopo l'invasione sovietica dell'Afghanistan, la produzione dell'Afghanistan, controllata dai signori della droga appoggiati dagli Stati Uniti, che fino ad allora aveva rivaleggiato con la produzione dell'Asia sudorientale, venne eliminata. Dal 2002, la produzione afghana di oppio, incoraggiata sia dai talebani che dai signori della droga appoggiati dagli Stati Uniti, ha raggiunto il 93% della produzione mondiale illegale: una prestazione senza confronti.

Il grafico riprodotto nell'illustrazione, tratto dall'UN World Drug Report [Rapporto Mondiale sulle Droghe delle Nazioni Unite] del 2008, mostra la crescita sbalorditiva della produzione afghana di oppio seguita all'invasione americana.

Negli anni '80, gli Stati Uniti sostennero in Afghanistan i fondamentalisti islamici, i mujaheddin, contro i sovietici. Per finanziarsi la guerra, i mujaheddin ordinarono agli agricoltori di coltivare l'oppio come pedaggio alla rivoluzione. Lungo il confine col Pakistan, i leader afghani e i cartelli locali, sotto la protezione dell'intelligence pakistana, gestivano centinaia di raffinerie di eroina. Quando la Mezzaluna d'Oro dell'Asia sudoccidentale eclissò il Triangolo d'Oro dell'Asia sudorientale come centro del traffico di eroina, fece alzare i tassi di tossicodipendenza in Afghanista, Iran, Pakistan e Unione Sovietica in modo vertiginoso.

Per nascondere la complicità statunitense nel traffico della droga, venne chiesto ai funzionari della Drug Enforcement Agency (DEA) di stare alla larga dai narcotraffici degli alleati degli Stati Uniti e dal sostegno da essi ricevuto dall'Inter Service Intelligence (ISI) del Pakistan e dai favori delle banche pakistane. Il compito della CIA era di destabilizzare l'Unione Sovietica per mezzo del sostegno all'islam fondamentalista all'interno delle repubbliche centro-asiatiche, e così sacrificarono la guerra alla droga per combattere la Guerra Fredda. Il loro compito era di danneggiare i sovietici il più possibile. Sapendo che la guerra con la droga avrebbe accelerato il crollo dell'Unione Sovietica, la CIA facilitò le attività dei ribelli anti-sovietici nelle province dell'Uzbekistan, della Cecenia e della Georgia. Le droghe vennero usate per finanziare il terrorismo e le agenzie di intelligence occidentali usavano il loro controllo sul narcotraffico per influenzare i gruppi politici in Asia Centrale.

L'esercito sovietico si ritirò dall'Afghanistan nel 1989, lasciando sul campo una guerra civile – tra i mujaheddin finanziati dagli Stati Uniti e il governo sostenuto dai sovietici – che durò fino al 1992. Nel caos che seguì alla vittoria dei mujaheddin, l'Afghanistan scivolò in un periodo di guerra per bande in cui l'oppio crebbe in modo vigoroso.

Dal caos emersero i talebani, che si impegnarono a eliminare i signori della guerra e ad applicare un'interpretazione stretta della legge islamica (sharia). Presero Kandahar nel 1994, ed ampliarono il loro controllo dell'Afghanistan, conquistando Kabul nel 1996, e proclamando l'Emirato Islamico dell'Afghanistan.

Sotto la politica del governo talebano, la produzione di oppio in Afghanistan venne messa a freno. Nel Settembre del 1999, le autorità talebane emisero un'ordinanza che ordinava a tutti i coltivatori di oppio dell'Afghanistan di ridurre la produzione di un terzo. Una seconda ordinanza, promulgata nel Luglio del 2000, ordinava ai coltivatori di cessare del tutto la coltivazione dell'oppio. Ordinando la messa al bando della coltivazione dell'oppio, il Mullah Omar definì il traffico di droga "anti-islamico".

Di conseguenza, il 2001 fu l'anno peggiore per la produzione globale di oppio nel periodo tra il 1990 e il 2007. Durante gli anni '90, la produzione globale di oppio raggiunse la media di oltre 4.000 tonnellate. Nel 2001, la produzione di oppio precipitò a meno di 200 tonnellate. Sebbene non venne riconosciuto dal governo Howard, che se ne attribuì il merito, la penuria di eroina in Australia del 2001 era dovuta ai talebani.

Dopo l'attacco al Pentagono e alle Torri Gemelle dell'11 Settembre 2001, gli eserciti dell'alleanza del nord, guidati dalle forze speciali statunitensi e sostenuti dalle bombe "daisy cutter", dalle bombe a grappolo e dai missili anti-bunker, distrussero le forze talebane in Afghanistan. Il bando dell'oppio venne tolto e, con i signori della guerra sostenuti dalla CIA di nuovo al potere, l'Afghanistan divenne di nuovo il principale produttore di oppio. Nonostante i dinieghi ufficiali, Hillary Mann Leverett, ex addetto del National Security Council per l'Afghanistan, confermò che gli Stati Uniti sapevano che i ministri del governo afghano, incluso il ministro della difesa del 2002, erano coinvolti nel traffico della droga.

Schweich scrisse sul New York Times che "la narco-corruzione arrivò ai vertici del governo afghano". Disse che Karzai era restio a combattere i grandi signori della droga nella sua roccaforte politica al sud, dove viene prodotta la maggior parte dell'oppio e dell'eroina del paese.

Il più importante di questi sospetti signori della droga era Ahmed Wali Karzai, il fratello del Presidente Hamid Karzai. Si è detto che Ahmed Wali Karzai abbia orchestrato la fabbricazione di centinaia di migliaia di schede elettorali fasulle per il tentativo di rielezione del fratello nell'Agosto del 2009. È stato anche ritenuto responsabile della presentazione di dozzine di cosiddetti seggi elettorali fantasma – esistenti solo sulla carta – usati per fabbricare decine di migliaia di schede fasulle. Funzionari statunitensi hanno criticato il suo controllo "para-mafioso" dell'Afghanistan meridionale. Il New York Times ha riferito che l'amministrazione Obama si è ripromessa di prendere serie misure contro i signori della droga che permeano gli alti livelli dell'amministrazione del Presidente Karzai, e che ha fatto pressioni sul Presidente Karzai affinché allontanasse suo fratello dall'Afghanistan del sud, ma lui si è rifiutato.

Karzai ci sta giocando come un imbroglione – ha scritto Schweich. – Gli Stati Uniti hanno speso miliardi di dollari per lo sviluppo infrastrutturale; gli Stati Uniti e i loro alleati hanno combattuto i talebani; gli amici di Karzai hanno avuto la possibilità di diventare più ricchi col traffico della droga. Karzai aveva per nemici dei talebani che hanno fatto profitti con la droga, ma aveva un numero anche maggiore di amici che l'hanno fatto.

Ma chi ha giocato chi come un imbroglione? È stato il presidente fantoccio o i burrattinai che lo hanno insediato? Come Douglas Valentine mostra nella sua storia della guerra alla droga, The Strenght of the Pack [La forza del branco], questa guerra infinita è stata una gara fasulla, un braccio di ferro tra due braccia dello stato americano, la DEA e la CIA; con la DEA che ha cercato invano di fare la guerra, mentre la CIA protegge i suoi apparati che commerciano con la droga.

Durante i secoli diciannovesimo e ventesimo, le potenze europee (soprattutto l'Inghilterra) e il Giappone usarono il traffico di oppio per indebolire e sottomettere la Cina. Durante il ventunesimo secolo, sembra che l'arma dell'oppio venga usata contro l'Iran, la Russia e le ex repubbliche sovietiche, tutti costretti a fronteggiare tassi vertiginosi di tossicodipendenza e la penetrazione occulta degli Stati Uniti, mentre la guerra afghana alimenta la piaga dell'eroina dell'Asia Centrale.

La Sinistra riparte dai giovani





I tempi, per la sinistra in Italia, non sono di certo dei migliori ormai da anni, e se poi per sinistra prendiamo in considerazione i partiti o le realtà politiche che ormai non sono più rappresentati in parlamento le cose vanno sicuramente ancora peggio.

Siamo ormai quasi adusi a litigi, divisioni, diaspore e massacri interni, situazioni da sempre tipiche dell'autolesionismo della sinistra nostrana.

In molti non hanno ancora dimenticato quel lontano 1998, quando quella maledetta scissione tra Rifondazione e Comunisti Italiani ha diviso un bacino elettorale ancora invidiabile se visto dagli occhi di noi delusi del 2010.

La divisione tra i due partiti eredi del glorioso PCI in Italia ha spesso lasciato interdetti coloro i quali non masticano la politica, e la situazione è andata facendosi man mano sempre più grottesca mano a mano che il quadro nazionale si faceva più fosco per la sinistra. Questa divisione si è poi aggravata con ulteriori scissioni: quella di Sinistra Critica con Turigliatto, e quella del Partito Comunista dei Lavoratori di Ferrando. Per quanto non considerevoli dal punto di vista quantitativo queste due ulteriori scissioni hanno comunque contribuito a frazionare ulteriormente la galassia "comunista", aprendo la strada alla scissione per eccellenza con Sinistra e Libertà e Vendola.

A distanza di qualche anno la situazione a ben guardare non è migliorata, anche se la novità nel panorama a sinistra del PD potrebbe essere rintracciata nel tentativo di Federazione della Sinistra di riaccendere un dialogo su scala nazionale tra Rifondazione Comunista e il Partito dei Comunisti Italiani. Dopo le dure sconfitte elettorali patite nelle elezioni regionali ed europee dunque questa federazione rappresenta un tentativo di mettere insieme quello che resta, e potrebbe in fieri anche portare a una storia riunificazione de facto dei due partiti divisi in un'unica casa. Dopo qualche mese dal lancio del progetto tuttavia la strada da fare sembra essere ancora moltissima, anche se si iniziano a intravedere alcuni segnali di luce in fondo al tunnel.

A Torino (un esempio per il Piemonte) la FGCI (Federazione Giovani Comunisti Italiani), e i GC (Giovani Comunisti), rispettivamente le due organizzazioni giovanili di Pdci e Prc, hanno cominciato una fattiva collaborazione sul territorio che si è concretizzata nel coordinamento e nel lavoro comune, seppur mantenendo ciascuno la propria distinta identità. Il segnale lanciato dai giovani militanti torinesi di Prc e Pdci ai loro partiti sembra dunque quello di premere per una collaborazione che possibilmente possa estendersi a ogni livello e in ogni regione e realtà territoriale. Fgci e Gc hanno dunque dimostrato che, constatando che mala tempora currunt, collaborare non solo è possibile ma è anche propedeutico a una riorganizzazione della sinistra che passi anche e soprattutto dai giovani, che sono coloro che dovranno cercare di prendere in mano quello che resta della sinistra per rilanciarla.

La speranza è che tale tendenza possa estendersi in tutta Italia, cosa che di fatto sta già avvenendo, e possa essere da stimolo non solo a coloro che sono direttamente coinvolti dalla vita di "partito", o ai simpatizzanti, ma anche a tutta la società civile.